Studentesse e studenti avviliti e insegnanti e dirigenti sull’orlo di una crisi di nervi. Comincia nel peggiore dei modi il 2022.
Lo spettro del ritorno in dad si aggira intorno alle scuole ancora chiuse accompagnato del fantasma dell’ibrido, considerato un inferno da tante e tanti docenti, perché costringe a una didattica strabica, che dovrebbe cercare di coinvolgere contemporaneamente chi è a scuola e chi segue da casa dietro a uno schermo.
Costruire un ambiente di apprendimento sensato in queste condizioni è quasi impossibile o prevede tempi di progettazione e preparazione e condivisione tra docenti che continuano a non essere previsti nè remunerati. Le complicatissime e sconcertanti proposte dell’ultimo decreto del governo annunciate per la strada nella notte di giovedì 6 gennaio aggravano il tutto proponendo un gioco dell’oca da giocare senza dadi, perché i tracciamenti sono saltati e la possibilità di fare di continuo tamponi rapidi in molti luoghi risulta impraticabile. L’idea poi che un ragazzino delle medie possa essere penalizzato per scelte o ritardi sul vaccino dei suoi genitori è massimamente diseducativa.
Siamo di nuovo in emergenza, non c’è dubbio, ma in due anni avremmo dovuto imparare che l’unico modo di affrontare le emergenze sta nel guardare lontano.
Come nei trasporti, invece di dare la priorità a grandi opere e alle alte velocità si sarebbero dovuti moltiplicare da subito i mezzi dei pendolari e dei trasporti urbani nelle ore di punta, così, nella scuola, non c’è mai stata occasione più propizia per ridurre drasticamente i numeri nelle centomila classi che hanno tra i 20 e i 25 studenti e nelle troppe prime delle superiori – soprattutto di tecnici e professionali – in cui il numero di allievi supera a volte i 30, contando cinicamente su una profezia che si auto avvera, perché molti saranno rapidamente respinti e abbandonati in un tempo in cui la dispersione scolastica è tornata a crescere.
Ma nel nostro paese, riguardo alla scuola, l’ultima parola continua ad averla il ministro dell’economia e infatti siamo ancora tra gli ultimi paesi in Europa riguardo alla percentuale di spesa pubblica dedicata a istruzione e ricerca.
Non si vede la fine del tunnel, mentre si vede benissimo la moltiplicazione geometrica delle sofferenze di bambine e bambini e soprattutto adolescenti, costretti a vivere l’età del desiderio senza la possibilità di abbracci e baci e intimità da esplorare liberamente senza la paura che ogni contatto sia oscurato dell’ombra del contagio.
Crescono molteplici forme di autolesionismo, isolamento, disturbi alimentari, depressioni e comportamenti compulsivi o violenti.
Di fronte a un paesaggio giovanile così avvilito e rappreso la scuola fatica a mettersi in discussione e a ripensare se stessa, per accogliere l’evidenza che questa crisi, inesorabilmente, non può non essere al centro dei processi di crescita di studentesse e studenti. Tante sofferenze e insofferenze, infatti, potrebbero e dovrebbero divenire fulcro e motivo di ricerca in questo tempo così alterato. Luogo in cui ragazze e ragazzi potrebbero essere protagonisti di una costruzione culturale capace di assumere l’incertezza e gli squilibri, nel pianeta e dentro ciascuno di loro, come fonti di conoscenza e apprendimento e cura reciproca.
Ho sentito due ragazze discutere su quale fosse il punto su cui far leva per rivoluzionare ogni cosa di un mondo che sentono nemico e mi ha stupito ascoltare che la prima rivendicazione che veniva loro in mente stava nel battersi con decisione per avere uno psicologo a scuola “che si possa consultare anche senza dirlo ai genitori”.
L’idea che la prima proposta rivoluzionaria stia in una richiesta di aiuto fa riflettere.
La presenza di sportelli di sostegno psicologico nelle scuole aperti a studenti e famiglie può certo essere una buona cosa ed è giusto che siano stati finanziati, anche se l’ondivaga precarietà con cui vengono elargiti i fondi permette raramente progetti duraturi nel tempo. Credo tuttavia che la diffusione di così gravi disagi e un evidente impoverimento di conoscenze e competenze costruite negli ultimi due anni debba essere affrontata nella sua complessità e investire pienamente la didattica, ragionando a fondo su contenuti e metodi intorno a cui si stabiliscono o interrompono le relazioni tra le generazioni.
E allora la domanda da porci è se sia possibile che la cultura, cioè arte, scienza, storia e letteratura, matematica, musica e nuovi linguaggi di ogni sorta possano essere terreno di comprensione del mondo e insieme, nel medesimo tempo, luogo di comprensione e cura reciproca, di conoscenza di sé e apertura agli altri.
Non ha mai avuto senso una scuola in cui l’insegnamento delle discipline faceva stare male ed alcune attività legate a intermittenti progetti a cui partecipano anche altre educatrici o educatori lavorassero sullo star bene insieme. Ma oggi tutto ciò è ancora più assurdo ed è attorno a questo intreccio che è necessario lavorare, assumendo una buona volta la consapevolezza che la formazione e autoformazione in servizio, così come tempi di progettazione comune in ogni ordine di scuola, devono essere previsti, pagati e divenire obbligatori perché oggi come non mai è evidente che è impossibile insegnare senza continuare a ricercare.
di Franco Lorenzoni