Cosa può portare al suicidio in gioventù? Sempre di più sono i casi di studenti che sia in età scolare che nel percorso universitario hanno deciso di commettere un gesto estremo. In un recente report dell’Oms i casi di suicidio, soprattutto di adolescenti, rappresenta il 12% delle morti fra i 15 e i 29 anni.
Purtroppo non si trova mai una spiegazione a questo terribile atto che racchiude un enorme malessere. Partendo dalle storie di tutti coloro che hanno tentato il gesto estremo, ci accorgiamo del mancato coraggio di chiedere aiuto prima che sia troppo tardi.
In questa epoca di disorientamento, gli adulti devono proteggere le future generazioni da una società accusatoria e alienata, che non sa più dialogare né tanto meno ascoltare. Chi commette un suicidio esprime la sua incontenibile sofferenza causata da molteplici fattori. La fragilità assume così il volto più crudele e disperato.
Il caso di Chieti, insieme a tanti altri, precedenti e successivi, sono l’espressione di un fallimento personale e nello studio. Dobbiamo iniziare a prestare particolare attenzione a tutti questi studenti che vivono sotto pressione, tormentati dalla paura di fallire. Dobbiamo insegnare ai nostri alunni che non bisogna essere perfetti, perché il modello di eccellenza è un modello che uccide. Molti giovani contemporanei affogano in un disagio esistenziale perché si sentono costantemente minacciati dal giudizio di una società feroce che non salva nessuno.
Questa pressione sociale porta gli studenti all’alienazione. I giovani sono costretti a tenere alta la loro reputazione emotiva e non hanno il coraggio di ammettere le proprie paure, mantenendo il proprio status quo. Eppure le urla mute diventano sempre più agonizzanti, tuttavia nessuno ammette la verità. I giovani gridano aiuto, ma tutti siamo diventati improvvisamente sordi e ciechi dinnanzi a questi fenomeni drammatici.
La scuola deve contribuire a ridurre i sentimenti d’insicurezza, angoscia, delusione. Insegniamo ai nostri alunni a percepire la propria fragilità senza vergogna e di non sentirsi mai inadeguati perché bisogna imparare a volersi bene, così come si è. Ogni essere umano deve avere la possibilità di esprimere liberamente il suo sé sociale senza paura del giudizio, senza la necessità di addentrarsi in una realtà virtuale come unico mezzo di relazione, senza la fissazione ossessiva e terrorizzata che una parte del proprio corpo sia mostruosa, abnorme e oggetto di disprezzo da parte degli altri (dismorfofobia).
L’adolescenza è un periodo molto delicato e fragile, in cui la gestione dei nuovi impulsi e delle forti emozioni travolge e irrompe nella mente dei ragazzi. Genitori e insegnanti devono pertanto iniziare a creare un rapporto “inverso”, basato su un equilibrio sano di responsabilizzazione per validare l’autostima che è alla base del processo di crescita. Questo è un grido di allarme, una richiesta d’aiuto, un lockdown nel processo evolutivo.
Dobbiamo intervenire in modo veloce e tempestivo per evitare che le loro paure si amplifichino, cercando di rispondere alle loro difficoltà. Dobbiamo leggere dai loro sguardi fuggenti il loro sentirsi inadeguati alla propria vita e alla quotidianità. Dobbiamo controllare le loro braccia per evitare episodi ripetuti di autolesionismo, dobbiamo accorgerci di episodi di eccessivo dimagrimento, dobbiamo osservare il loro senso di disperazione e il loro sentirsi “intrappolati “ e senza via d’uscita. Dobbiamo superare questo background culturale e cercare di intervenire con una forte sensibilizzazione, poiché la prevenzione e la gestione non sono di facile attualizzazione.
L’approccio più efficace risulta il lavoro di squadra d’insegnanti, medici, psicologi scolastici, infermieri e assistenti sociali, che lavorano in stretta collaborazione con i servizi territoriali. Restando sempre vigili, non dobbiamo mai sottovalutare questi segnali di “bombe silenziose” per proteggere i nostri giovani dalle “terribili messe in atto”.