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«Merito, depressione, suicidi: ora l’università va cambiata»

INTERVISTA. Parla Alessandra De Fazio, studentessa di medicina e presidente del Consiglio degli studenti dell’università di Ferrara, che ha denunciato gli effetti drammatici del sistema neoliberale dell’istruzione davanti al presidente della Repubblica Mattarella: “Il diritto allo studio va veramente finanziato. E va creato un reddito di formazione che possa permettere a tutti di studiare e vivere. L’università dovrebbe virare da un sistema classista a uno accessibile, gratuito e garantito. Alle componenti studentesche consapevoli dico di non fermarsi davanti a una società che ha consumato tutto quello che poteva consumare”

Alessandra De Fazio, studentessa al quarto anno di medicina, presiede il consiglio degli studenti dell’università di Ferrara, durante l’inaugurazione dell’anno accademico alla presenza del presidente della Repubblica lei ha denunciato l’«università neoliberale» e gli effetti che produce sugli studenti. Quali sono?
Senso di inadeguatezza, depressione, persino il suicidio. E questo vale specialmente per i più poveri, esclusi da un Welfare degno di questo nome e da un’idea di emancipazione. Questo è l’esito di un sistema governato sulla base di parametri che spingono gli atenei a mettere pressione sugli studenti a laurearsi in tempi brevi, ad essere «performativi». Tutto ciò incide anche sul benessere psicologico dell’individuo.

Com’è organizzata l’università neoliberale?
È l’esito di un ciclo di riforme culminate con quella Gelmini nel 2010. L’università è gestita come un’azienda. Lo si vede dalla suddivisione del Fondo di finanziamento ordinario (Ffo). La gestione della cosiddetta «quota premiale» ha trasformato i finanziamenti in premi per gli atenei più numerosi e performanti. Quelli piccoli ne ricevono una quota minore e sono considerati improduttivi. Si trovano costretti a decidere se alzare le tasse degli studenti o aumentare gli iscritti per concorrere ai «premi». E hanno trasformato radicalmente la didattica e la ricerca che rispondono ai parametri stabiliti da un’agenzia chiamata «Anvur». Noi studenti siamo bombardati da un sistema che ci sbatte in faccia i successi degli altri e ci fa tirare un sospiro di sollievo quando qualcuna fallisce al posto nostro.

«Sono un fallimento, non merito di vivere». «La mia vita è inconcludente e inutile» dicono alcuni studenti, talvolta protagonisti di atti tragici. A cosa è dovuta una simile disperazione?
Ci stanno insegnando che la legittimazione sociale è definita dalla realizzazione personale. È legittimato socialmente chi raggiunge i traguardi che la società impone. Questa idea è fondata su una falsa equivalenza per cui la realizzazione professionale di una persona coincide con l’utilità della stessa. Ma quando è stato deciso che per vivere bisogna essere solo e semplicemente utili? Lo studente non è più libero di seguire il proprio percorso, è costretto a agire più come una macchina o si sente trattato come un oggetto. In questa università l’obiettivo non è la formazione, ma l’essere legittimati socialmente attraverso il successo. Ma noi siamo già legittimati socialmente dal fatto che siamo persone autonome.

Nel suo discorso ha detto che il sistema universitario è classista. Cosa significa?
Le faccio l’esempio delle borse di studio. Sono un sussidio per chi non può accedere all’università. Però c’è una grande differenza tra chi ha genitori facoltosi e chi no. I primi possono pagare l’università per tanti anni i secondi no. Quando si prende la borsa si è obbligati a maturare crediti in un determinato tempo. Ma questo può anche non avvenire. Ho conosciuto studenti che piangevano perché, per un solo credito (Cfu), non hanno perso solo la borsa, hanno dovuto restituire tutto l’importo. E non hanno potuto più pagarsi l’affitto. Può immaginarsi gli effetti devastanti su queste persone, e sulle loro famiglie, dopo tanti anni di crisi.

Quali soluzioni ci sono?
Finanziare veramente il diritto allo studio. Creare un reddito di formazione che possa permettere a tutti di studiare e vivere. L’università dovrebbe virare da un sistema classista a uno accessibile, gratuito e garantito. La formazione non si merita, va garantita in maniera universale.

Al ministero dell’Istruzione è stato aggiunto il concetto di «merito». Che cosa significa per lei?
Mi sembra un’idea distopica, forse l’hanno presa dal libro di Michael Young che ha immaginato un paese governato dalla «meritocrazia» nel 2033. Denominare così un ministero che non trova una soluzione ai problemi degli studenti, significa aumentarli. La meritocrazia è la versione ipocrita del privilegio. È una giustificazione della competizione in nome di un’uguaglianza fittizia.

Luigi Marattin (Italia Viva) ha scritto che i concetti che lei sta usando anche in questa intervista «sembrano essere sostenuti anche da persone che hanno il doppio o triplo della sua età». Cosa risponde?
Non conosce il modo in cui si parla nelle aule universitarie in Italia. Non c’è nessuno meglio degli studenti che può parlare della propria condizione. Io ho 24 anni e mi assumo la responsabilità di ciò che dico.

Ha chiesto alle autorità accademiche di «restituirci un mondo che possa davvero appartenerci». E se non lo restituiscono pensa sia possibile andarselo a prendere?
Io faccio parte degli studenti di Link e invito tutte le componenti studentesche consapevoli a non fermarsi davanti a questa società che ha consumato tutto quello che poteva consumare. E si è impadronita anche delle nostre soggettività. Cercheremo di fare sentire la nostra voce in qualsiasi momento. Non ci fermeremo. Questo è sicuro.

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