Una riflessione di Enrico Galliano, scrittore e docente amato dal pubblico di tutte le età.
“Lo vogliamo capire che la scuola non è un posto dove si vanno a selezionare i migliori, che pensarla così è il modo più antidemocratico che esista?”. Su ilLibraio.it la riflessione di Enrico Galiano, insegnante e scrittore, critico sulla scelta del nuovo Governo di scegliere il nuovo nome “Ministero dell’Istruzione e del Merito”: “La scuola non è il posto dove si premiano i migliori: è quello dove si va a tirare fuori il meglio da ciascuno studente e studentessa…”
Mi scrivono. Mi dicono: “Ehi prof, hai visto che hanno cambiato nome al Ministero?”.
Dentro di me esulto: forse stavolta è quella buona.
Io e tanti altri sono anni che lo diciamo: per favore, chiamiamolo Ministero dell’Educazione, che significa “tirare fuori da qualcuno ciò che ha dentro”. Oppure Ministero dello Studio, che significa “desiderio, passione, impegno”. Ma anche semplicemente “Ministero della Scuola”, che è chiaro limpido cristallino. Dai, finalmente forse ci siamo.
Così tutto felice apro Google e lo vedo.
Ministero dell’Istruzione e del Merito.
Ahia. Non era esattamente quello che mi aspettavo. Ma non facciamo i sospettosi e i disfattisti: ogni cambiamento fa paura e crea disagio. Proviamo a vedere per bene cosa vuol dire, quella parolina lì.
E allora prendo il mio caro dizionario etimologico e scopro che merito è una parola che deriva dal greco meiromai, cioè “ricevere la propria parte”, “ciò che spetta”.
Be’, fino a qui non è niente male! Visto che sbagli a essere disfattista?
Poi approfondisco: in realtà meiromai nasce come mutamento fonetico di un’altra parola che in greco sta per mortale. Mortale nel senso di “colui che viene assegnata la sua parte”, appunto. In questo senso è una sorta di trasposizione lessicale del concetto de ‘a Livella di Totò.
Ok, non mi sembra il massimo inserire nel nome del Ministero un termine che derivi da morte, però andiamo avanti.
Il cambio decisivo si è avuto con il passaggio da greco a latino, dove il sostantivo meritum deriva da mereri e significa adesso “ricompensa, premio”. Quindi adesso non è più una livella: è una punizione – questo è quello che ti meriti! – oppure un premio – ti meriti una bella torta!”.
E così è arrivato fino a noi: quando pensiamo a meritocrazia non ci viene in mente una livella che rende tutti uguali, ma un sistema che premia i bravi a declassa i fannulloni.
E da dove ci nasce questa idea?
Da un libro. Più precisamente, da un’opera distopica del 1958, a firma Michael Young, The rise of meritocracy. Young era un sociologo, e con questo espediente letterario voleva avvertirci, tutti quanti: attenti, state sostituendo i privilegi basati sul censo e l’appartenenza di classe con quelli basati sull’ingegno.
Dice il filosofo Stefano Nobile: “Il concetto di meritocrazia è uno dei grimaldelli più efficienti sui quali si sta da tempo facendo leva per dare una veste ‘giusta’ alle disuguaglianze sociali, per due vie: decretando che cosa debba essere valutato e come.”
Ora che l’ho studiata un po’ più a fondo, mi mette ancora più a disagio, questa parola.
Penso ai bambini e alle bambine dell’infanzia, o della primaria, che fin da piccoli mettono piede in un posto che fa capo al Ministero del Merito: e quindi vengono abituati fin da piccoli al concetto di premi e punizioni, se fai il bravo ti meriti questo e se non fai il bravo ti meriti quest’altro.
Penso ai ragazzi e alle ragazze più grandi, che alle medie sono buttati nello tsunami della preadolescenza e hanno bisogno di tutto, di affetto, di ascolto, di calma, di bellezza, ma non certo di un Ministero del Merito.
Lo vogliamo capire che la scuola non è un posto dove si vanno a selezionare i migliori, che pensarla così è il modo più antidemocratico che esista?
La scuola, per quello che ci ho capito io, non è il posto dove si premiano i migliori: è quello dove si va a tirare fuori il meglio da ciascuno studente e studentessa.
E nella logica del premio e del castigo, della competizione, del vince chi se lo merita, lasciatevelo dire, viene fuori solo il peggio di loro.
L’AUTORE – Enrico Galiano sa come parlare ai ragazzi. In classe come sui social, dove è molto seguito. Insegnante e scrittore classe ’77, dopo il successo dei romanzi (tutti pubblicati da Garzanti) Eppure cadiamo felici, Tutta la vita che vuoi, Felici contro il mondo, e Più forte di ogni addio, ha pubblicato un libro molto particolare, Basta un attimo per tornare bambini, illustrato da Sara Di Francescantonio. È tornato al romanzo con Dormi stanotte sul mio cuore, e sempre per Garzanti è uscito il suo primo saggio, L’arte di sbagliare alla grande.
Con Salani Galiano ha pubblicato la sua prima storia per ragazzi, La società segreta dei salvaparole, un inno d’amore alle parole e alla lingua.
Ora è in libreria per Garzanti con il suo nuovo saggio, Scuola di felicità per eterni ripetenti.
Alla pagina dell’autore tutti gli articoli scritti da Galiano per ilLibraio.it.