Ho incontrato Lorenzo Milani una mattina del settembre del 1967. Se ne stava bellamente squadernato su una sedia di casa, scivolato da una pila di libri accatastati su un tavolo ingombro di carte. Così, dalle pagine di “Lettera a una professoressa”, Milani, insieme ai suoi ragazzi della scuola di Barbiana, mi parlava e mi cambiava la vita, dopo che la sua era eroicamente terminata pochi mesi prima.
Molti anni dopo, nel volto dei miei ragazzi a scuola, avrei scorto i Gianni e i Pierini, avrei fatto attenzione alle loro parole, alla loro lingua, alla loro “cultura” con una consapevolezza le cui radici affondano in quella lettura giovanile nella quale rimasi sprofondato fino all’ultima pagina, fino all’ultima tabella statistica.
L’anno dopo era il ’68 e a Bologna, nelle prime occupazioni in via Zamboni, si distribuivano copie della “Lettera” alle matricole e qualche mattina anche noi studenti delle “superiori”, marinando le lezioni con furtiva allegria, contribuivamo alla diffusione.
Allora fra noi ragazzi diciotto-ventenni immersi dalla mattina alla mattina in discussioni senza limiti né di tempo né di argomenti maturò l’idea: “Facciamo un doposcuola per i bambini immigrati e proletari delle elementari e delle medie”. E si andò a Firenze in alcuni: due-tre giorni alla ricerca dei doposcuola “milaniani”, ingenui esploratori di un nuovo mondo, di un nuovo modo di fare scuola. Si trovò ascolto a Ponterosso-Le Cure, dove alcuni che erano stati a Barbiana ci dedicarono tempo e parole incoraggianti, e noi attenti come di fronte ai “vecchi partigiani” della canzone dei “Morti di Reggio Emilia”. Tornati a scuola si scrisse sulla giustificazione: viaggio a Firenze per studio e ricerca. Eravamo pronti a reagire alla reazione dei prof che, contro i nostri pronostici, firmarono con un sorriso che ci spiazzò.
I bambini vennero numerosi, alcuni accompagnati da mamme ancor più timide di loro. Il volantino distribuito in centro, via Malatesta, via Carteria… casa per casa, e alle Ceccherelli e alle medie “G.B. Amici”, era semplice: ora e luogo. La parola GRATUITO ben in risalto fece indubbiamente la sua parte, e così, nelle famiglie operaie e contadine che venivano dal sud della disoccupazione endemica e delle “gabbie salariali”, scoprimmo l’Italia dei dialetti, l’Italia nella quale solo poco più di un terzo accedeva alla scuola media, mentre ancora si sarebbe dovuto oltrepassare la soglia degli anni settanta per vedere i primi significativi gruppi di ragazzi e ragazze di estrazione operaia e contadina affacciarsi all’università.
Che scuola era dunque la nostra, di improvvisati maestri che nulla sapevano di pedagogia, e la cui istruzione si era svolta tutta nel privilegio di classe, anche se con maestre che per lo più praticavano la rozza didattica, appresa dal fascismo, dello “zitti e muti” e delle “braccia conserte”?
Ci mettevamo con entusiasmo all’ascolto di questi ragazzini di pochi anni più giovani di noi. Percepimmo la loro struggente nostalgia di casa: “nun ce sta o cielo…”, sospiravano mentre, naso all’insù, cercavano una macchia di azzurro nel grigio plumbeo modenese. Familiarizzammo con i loro nomi esotici: Concette e Carmele, Salvatori e Nunzi e così via. Un bambino sardo, emigrato in Svezia e poi rimbalzato da Sassuolo a Modena aveva deciso che cambiare tre lingue in sei anni era abbastanza e aveva decretato che, fuori di casa, non avrebbe parlato più. Le maestre ignoranti e pigre lo avevano definito deficiente e muto e parlavano di bocciarlo già dalle prime settimane. La battaglia che ne seguì, con noi a scuola un giorno sì e l’altro pure fruttò un prudente ripensamento della maestra e il ritorno della parola “pubblica” di Gavino, al quale poi pazientemente spiegammo l’utilità dell’italiano oltre che del sardo logudorese suo preferito.
Era con noi Milani che ci ammoniva a distinguere tra eguaglianza e equivalenza: la cultura del giovane cittadino di famiglia colta e quella del boscaiolo montanaro figlio di analfabeti di fatto, diceva, non sono uguali, certo, ma equivalenti sì: entrambe più ricche da una parte e più povere dall’altra. Con le sue parole: “Io sono sicuro dunque che la differenza fra il mio figliolo e il vostro non è nella quantità né nella qualità del tesoro chiuso dentro la mente e il cuore, ma in qualcosa che è sulla soglia fra il dentro e il fuori, anzi è la soglia stessa: la Parola. I tesori dei vostri figlioli si espandono liberamente da quella finestra spalancata. I tesori dei miei sono murati dentro per sempre e isteriliti.”
Così, anche i bambini dei cittadini modenesi – sia pure di famiglia operaia – e quelli degli immigrati da Fratta Maggiore erano equivalenti nella loro diversità. Diversi ma eguali in dignità e diritti, diversi ma egualmente sovrani, di quella sovranità costituzionale che in Milani si dilata dal piano puramente formale della rappresentanza politica fino a esprimere in sé il riconoscimento pieno delle facoltà umane di tutti e di ciascuno. L’ “effettiva partecipazione … all’organizzazione politica economica e sociale” senza la signorìa della parola è un inganno, tanto più crudele quanto più difficile da smascherare, perché chi non parla non conta e i processi decisionali gli scivolano tra le mani e sono saldamente afferrati da altri, che dunque acquistano il dominio anche sulle vite altrui.
E gli interessi che in questo processo di appropriazione indebita prendono forma e si consolidano, diventano forti al punto da apparire quasi inespugnabili e inestinguibili. In questa disparità di potere si cela una radice potente di odio, di inimicizia e di violenza.
Nessuno mai, credo, o ben pochi, prima di Milani aveva visto con tanta drammatica chiarezza il nesso tra ignoranza e violenza, tra conoscenza e potere. Sapevano quel che dicevano i ragazzi della “Lettera”, quando, descrivendo una interrogazione a scuola tra l’insegnante “democratico” e lo studente “impreparato”, scrivevano: “…faceva il tifo per me con simpatia pietosa. Come giovani della San Vincenzo che non si accorgono dell’odio”.
Anche da queste parole ho imparato la lezione: non temo di provare odio nei confronti dei violenti perché ho imparato a trasformarlo in odio contro la violenza, secondo questa straordinaria definizione di opera d’arte, che tanto colpì Pasolini: “…mi venivano alla bocca solo parole sporche e ingiurie. Quelle parole che qui per scritto riusciamo a contenere un po’ a fatica e trasformare in argomenti. Così abbiamo capito cos’è l’arte. È voler male a qualcuno o a qualche cosa. Ripensarci sopra a lungo. Farsi aiutare dagli amici in un paziente lavoro di squadra. Pian piano viene fuori quello che di vero c’è sotto l’odio. Nasce l’opera d’arte: una mano tesa al nemico perché cambi”.
Così, nel tempo, mi sono esercitato ad ascoltare il silenzio dei privi di parola, dei privi di conoscenza, o meglio dei deprivati dell’una e dell’altra, scoprendo che, se si creano l’opportunità e le condizioni favorevoli, tutti i ragazzi di tutte le età fanno balzi per afferrare saldamente un’idea, un concetto nuovo, una conoscenza che di colpo spalanca un finestra sulla comprensione di realtà prima solo oscuramente percepite, ma considerate territorio irraggiungibile, territorio di altri.
E ancora vado predicando che non basta essere intelligenti: “siete tutti intelligenti, ragazzi e ragazze” ma occorre anche e soprattutto sentirsi intelligenti, e cioè avere concretamente le prove della capacità di capire le cose difficili e di gioirne. Quanto a me, devo a Milani il dispiacere di non essere il più delle volte in grado, nelle scuole “reali”, di portare tutti i giovani che hanno la ventura di avermi maestro e prof al livello di conoscenza cui avrebbero diritto. Tutti. Non uno di meno. E ogni volta alla fine dell’anno un sottile senso di vergogna mi morde, a volte per ciò in cui sono stato carente io, sempre per ciò in cui è carente la scuola.
Carente nel promuovere le condizioni e l’ambiente, umano e professionale, che “sveli” l’interesse dei giovani per la cultura e il pensiero, che “…è stato velato (io credo maliziosamente) – parole di Milani – dalla classe dirigente degli ultimi 50 millenni” di volta in volta con potenti e multiformi mezzi di distrazione di massa, da modelli di vita insulsi (buoni ultimi calciatori, veline e “reality” shows) e da luoghi comuni ribaditi e rinnovati ad arte da secoli (i giovani vogliono divertirsi, i giovani non hanno interessi, oppure: troppo serio per la sua età…).
Anzi, la tentazione, alla quale non si sottrae una parte consistente del corpo insegnante, è di lasciarsi andare a lamentazioni – sempre più fastidiose – sul fatto che le nuove generazioni sarebbero, ormai da lustri, sempre meno alfabetizzate, sempre meno “scolarizzate”. Invano si cerca di segnalare che negli ultimi venticinque anni finalmente l’Italia ha raggiunto livelli importanti di scolarizzazione di massa, con un tasso di iscritti e diplomati nelle scuole superiori, che nonostante sia ancora fortemente al di sotto della media dei maggiori stati europei, rappresenta tuttavia per il nostro paese un successo storico da ampliare e consolidare.
E ci si lamenta che le prime generazioni in cui la grande maggioranza ha come lingua materna e lingua d’uso l’italiano e non più il dialetto non sarebbero scolarizzate. Un paradosso la cui constatazione richiederebbe meno lamenti – puntualmente amplificati da giornali e TV – e più spirito di ricerca obbiettiva.
Dovremmo interrogarci su come mettere mano a un nuovo “principio educativo”, all’altezza delle nuova realtà (nuove tecnologie, nuovi potenti strumenti di accesso alle informazioni, la presenza nelle nostre scuole di una complessissima realtà multilinguistica e multiculturale che è ormai un dato strutturale definitivo ecc.) e discutere come modificare i nostri strumenti intellettuali e materiali di insegnamento. Invece si ritorna a sostenere superficialmente che la scuola è diventata troppo “lassista”, che si deve ritornare a bocciare e così via. Uno dei tanti segni dei nostri tempi. Viene da invocare una nuova Barbiana, che ci scuota con una nuova “Lettera”.
Ma se Mamoudou, 43 anni, del Mali, saldatore e padre di tre bambini, dodici anni in Italia, metà dei quali clandestino, appena lette faticosamente al corso serale del “Corni” poche pagine della “Lettera” mi dice “prof è bello questo libro, dov’è Barbiana?” “Siamo noi Barbiana, Mamoudou. Il libro tienilo. Me lo darai alla fine dell’anno”, allora teniamocela ben stretta questa cara vecchia giovane “Lettera”.
Di Memi Campana, insegnante. Luglio 2007